Ritrovare Lorenza Zambon in giardino, a una decina d’anni
dal nostro primo incontro, è stata una sorpresa bellissima.
Ci eravamo conosciute a un incontro da lei organizzato ad Asti.
Poi ci eravamo perse di vista.
Al punto di non riconoscersi quando, nelle colline intorno a Parma,
eravamo state entrambe invitate da Angela Zaffignani a una manifestazione
di giardini: Lorenza Zambon per il suo spettacolo
Sette volte
bosco, sette volte prato, io per parlare del mio libro fresco
di stampa,
L'orto di un perdigiorno.
Guardavo Lorenza Zambon e mi chiedevo: ma dov’è che
l’ho già vista?
Mentre Lorenza Zambon mi aveva sì sentita presentare il
mio libro, che aveva pure letto, ma non le era nemmeno venuto
in mente di associarlo alla scrittrice incontrata tanti anni prima
ad Asti.
Possibile fossimo tanto cambiate? Possibile che un giardino abbia
davvero il potere di trasfigurare al punto di rendere irriconoscibili,
proprio come accadde a Mary Lennox e a Colin Craven nel giardino
segreto?
Occuparsi di un giardino significa entrare in relazione con la
Natura. Che nessuno poi sappia cos’è la Natura, e
a nessuno sia dato conoscerla, non è poi così rilevante:
quello che conta è la relazione.
A questo proposito mi torna in mente quanto mi fece notare un
semiologo russo, Boris Uspenskij, parlando del paradosso della
preghiera: il credente si rivolge a Dio con la fiducia di venirne
ascoltato, similmente una madre parla al bambino appena nato,
nonostante questo non conosca e non possa comprendere ciò
che gli viene detto, con la fiducia di costruire un rapporto.
In entrambi i casi, quello che conta - e nutre - è il porsi
in relazione.
Questa premessa nel tentativo di comprendere un singolare fatto:
Lorenza Zambon e io eravamo arrivate, ciascuna attraverso la via
solo apparentemente isolata del giardino, a porci in relazione
con la natura, con animali e piante, paesaggi e condizioni atmosferiche.
Questo ci aveva portate a una visione affine: segno che la Natura
insegna a tutti le stesse cose, quando ce ne lasciamo prendere
per mano.
Detto questo, il modo in cui Lorenza Zambon aveva sviluppato il
suo lavoro teatrale aveva del geniale: di scrittrici giardiniere
ce n’è a bizzeffe, in un’attrice giardiniera
non mi ero mai imbattuta.
Dire attrice-giardiniera mette allegria ma è tuttavia riduttivo:
Lorenza Zambon scrive i suoi testi, è autrice, drammaturga
e attrice tutto in uno.
I suoi sono spettacoli realizzati con mezzi minimi: qualche vaso,
un tavolo, l’eco di un suono nell’aria, poche frasche
di potatura, un mucchietto di terra scura.
Mezzi minimi ma non del tutto: il lavoro di Lorenza Zambon nasce
all’interno di quel luogo di tranquillità creativa
che è la Casa degli Alfieri, “condominio teatrale”
fra le dolci colline di Castagnole Monferrato, dove nel 1994 si
è trasferito il gruppo nato nel 1971 come Magopovero. Lì
vivono quattro artisti, ciascuno nella sua casa, condividendo
però il teatro, gli uffici, e la cantina.
Col tempo, Lorenza Zambon si è resa conto di preferire,
alla rappresentazione di testi d’autore, quella che si potrebbe
definire “autodrammaturgia”: sbarazzarsi del personaggio
le permette di trasmettere meglio le emozioni.
Suppongo che per un attore liberarsi del personaggio sia l’equivalente,
per uno scrittore, di parlare in prima persona.
Comunque un modo più diretto di entrare in relazione col
pubblico.
Difatti, quello che mi ha colpito in
Sette volte bosco, sette
volte prato, è la capacità di coinvolgere nell’intreccio
tra l’evoluzione della terra e quella dell’uomo, la
storia della casa dove viviamo e quella di come i primi umani
hanno chiesto alla natura di che sfamarsi. Sbirciando gli altri
nel pubblico, mi chiedevo se si andava risvegliando anche in loro
qualcosa come lo stupore di essere al mondo, ma anche la speranza
implicita nella capacità autorigenerativa della foresta
non importa dopo quali cataclismi.
Sette volte bosco, sette
volte prato restituiva drammaticità alle vere, grandi
questioni del nostro tempo. Quelle che riguardano non più
e non soltanto i rapporti degli uomini tra loro, ma il posto stesso
della specie uomo nel mondo.
Per l’intero spettacolo avevo provato una commozione profonda,
a spettacolo terminato, avevo gli occhi lucidi: Lorenza Zambon
aveva trovato la via per raggiungere il cuore degli uomini, grandi
e piccoli, colti e incolti, di trasmettere loro la sensibilità
e un senso di sollecitudine per l’avvenire del nostro umile
pianeta dal nome di terra, per citare Anna Achmatova.
Parlano tutti di natura, i testi qui raccolti, ma ognuno attraverso
una dimensione temporale diversa. Così in
Variazioni
sul giardino Lorenza Zambon abbandona il tempo geologico
per quello storico, e alla storia dei giardini alle origini della
nostra civiltà, quello della sumera Inanna come l’altro
dell’Eden, intreccia quella del suo, conteso ai rovi.
Mentre
in Paesaggi questo non viene più raccontato in senso
cronologico, ma spaziale. Non più la sua storia, ma la
sua traccia rappresa nel paesaggio, svelata nel corso di una passeggiata
in cui Lorenza Zambon insegna a leggere: quello che c’è
sempre, ma solo in pochi hanno la capacità di vedere.
Non merita tuttavia dilungarsi su testi che parlano benissimo
da soli. Vorrei soltanto tornare a quel primo incontro di Asti:
un convegno di donne, incentrato sul tema del corpo. Non, tuttavia,
un convegno “femminista”.
Né Lorenza Zambon né io abbiamo mai fatto parte
di gruppi femministi. A entrambe è capitato di venire considerate
troppo “maschili”. Tempo fa Lorenza ha detto: “Non
amo l’enfasi che si sente spesso sul femminile: il mito
della donna-luna, della donna-marea, della grande madre. Mi interessa,
invece, uno sguardo femminile, il rapporto del corpo con la realtà.
Anche il lavoro che si fa nella Casa degli Alfieri risponde a
un principio femminile. Qui ci dobbiamo occupare di tutto, lavorando
in maniera complessa sulle relazioni: è un dibattito acceso
e uno scontro all’interno del gruppo”.
Occuparsi di tutto: proprio quello che, da sempre, fanno gli uomini
e le donne che, immersi in un paesaggio ancora commensurabile
alla natura, lavorano i campi, amano un giardino.